L' UOMO E IL CIBO


L’uomo soddisfa l’universale biologico della nutrizione in modo non dissimile dagli altri mammiferi. Nella ricerca come nella selezione, nella preparazione come nel consumo dei cibi, egli attiva un’attrezzatura sensoriale capace di regolare il rapporto tra l’interno e l’esterno del corpo, adattandolo ai ritmi fisiologici e stagionali, facendo leva su apparati percettivi (olfatto, gusto, tatto) condivisi con il resto del mondo animale. Soltanto l’uomo possiede però quel dispositivo simbolico che lo obbliga a trasformare i cibi in cose “ buone da pensare ” oltre che da mangiare. L’uomo è cioè qualche cosa di più di ciò che mangia, dal momento che dà ai cibi forma e valore.

Di questo carattere bi-planare dei cibi il pane è senza dubbio, nelle culture cerealicole europee, il prodotto più emblematico: alimento quotidiano ma anche segno, come testimonia il fatto che in molti luoghi non lo si possa rovesciare sulla tavola (sarebbe come mettere a testa in giù una persona) o come testimoniano le variazioni che ai pani festivi fanno subire le massaie soprattutto nella forma e nella decorazione. A questo proposito, i pani sardi, quelli pasquali in Sicilia o quelli di San Giuseppe in Puglia costituiscono in Italia un repertorio tra i più significativi.

I fatti alimentari sono, in altri termini, parte integrante di quell’universo simbolico che non soltanto ci fa unici tra gli altri animali, ma è anche all’origine della varietà culturale che ci caratterizza come specie. Ciascun gruppo etnico definisce la propria identità in rapporto ai cibi che costituiscono la sua base alimentare primaria (nelle culture mediterranee, dunque, i prodotti del grano), ma anche in rapporto a cibi speciali che ribadiscono i rapporti sociali e i ritmi del vivere quotidiano interrompendoli periodicamente in modo rituale. In quest’ultimo caso, si tratta essenzialmente di cibi cerimoniali poveri o, al contrario, particolarmente elaborati e abbondanti fino allo spreco, oppure di modalità di consumo inusuali, tra cui forme complesse di digiuno e persino di astensione. Segni tangibili di diversità culturale, che si esprime primariamente a livello delle qualità sensibili – la percezione visiva, i profumi, i sapori – i sistemi alimentari costituiscono altrettante frontiere tra le diverse epoche storiche, un criterio utile a distinguere le comunità che vivono di caccia e raccolta da quelle che praticano l’agricoltura, tra pitta e campagna, tra gruppi sociali. La stessa separazione (ma anche il rapporto) tra il mondo dei vivi e quello dei morti è quasi sempre garantito dalla circolazione di cibi: quelli consumati nei giorni del lutto, quelli offerti periodicamente dai vivi o deposti nelle tombe per accompagnare il viaggio dei morti, ma anche i cibi donati da questi ultimi ai vivi, soprattutto ai bambini.

Da un altro punto di vista i cibi invece accomunano più di quanto non separino. Se è vero infatti che essi riflettono modi di essere originali e identificanti dei vari gruppi umani, sottolineandone la dipendenza dalla varietà degli ambienti geografici e dalla diversità delle materie prime, è vero anche che soprattutto la loro preparazione mostra dovunque e in ogni tempo l’azione delle stesse regole logiche. Un esempio emblematico è rappresentato dai menu. A dispetto delle diverse tradizioni nazionali, essi si fondano tutti sulla combinazione di un duplice asse: orizzontale (in Italia, per esempio, la scelta all’interno dei primi piatti e dei secondi con l’aggiunta dei contorni) e verticale (la successione delle pietanze); altri possibili esempi sono quelli della opposizione dolce/salato o del piatto unico: benché diano luogo nelle diverse culture alle combinazioni più varie, quest’opposizione e questa modalità di consumo marcano in modo riconoscibile tutti i sistemi culinari; la grande varietà delle preparazioni carnee può essere infine ricondotta, da un punto di vista logico, soltanto a tre categorie universali: crudo, cotto, putrido, cui corrispondono le tre modalità di cottura più diffuse: l’arrosto, l’affumicato (sostituito in alcune culture dall’essiccato), il bollito. Ad esse è possibile aggiungere soltanto due altre modalità: la frittura e la marinatura, che risultano rispettivamente dall’uso di grassi (vegetali come l’olio o animali come il burro) o di acidi (come il limone o l’aceto).

È dall’analisi del rapporto tra queste categorie universali e la dimensione locale del cibo che gli uomini potranno imparare non soltanto a riconoscere, nello spazio come nel tempo, la diversità alimentare, ma anche a rispettarla e persino ad integrarla nel proprio orizzonte culturale.

Salvatore D’Onofrio (Università di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia Italia, Laboratoire d'Anthropologie Sociale du Collège de France, Paris.

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